Tanti concorrenti per il Big Mac
Per un McDonald’s pronto a declinare le specialità della Penisola, dalla pasta, ora solo in insalata con Barilla, al calzone-pizza margherita, c’è mezza Italia che si mette a cucinare e ad aprire insegne nel segno dell’hamburger, sia esso a chilometro zero o slow food (all’Hamburgeria di Eataly e da MacBun a Torino), venduto sull’apecar o in ambiente provenzale (si veda la catena milanese California Bakery), in un diners alla Happy Days (sempre a Milano Sunny side up) o in una trattoria dove però si ordina solo via iPad (Ham Holy burger a Roma e Milano).
Fino a tante micro insegne che, ad esempio nella metropoli lombarda si fa fatica a seguire: il nuovissimo Baobab burger organico a Brera, l’australiano Burger Wave sui navigli, sempre in zona Tizzy’s New York bar & grill, e poi il fai da te Trita dove si compra scegliendo gli ingredienti e si consuma al banco centrale; o il 202 Hamburger & Delicious alle colonne di san Lorenzo, infine Al Mercato, in Sant’Eufemia dove l’hamburger è gourmet.
Ma perchè tanta fame d’America condita con saper fare italiano? «Le nuove generazioni a livello mondiale sono nate nella cultura fast food, è quindi naturale che a una domanda crescente sia seguito un proliferare di nuovi format e locali», spiega a ItaliaOggi Luciano Cattaneo, past president e ora membro del board per l’Europa, l’Italia e il Middle east di Foodservice Consultants Society International (Fcsi), l’associazione di servizi per il food e l’ospitalità.
«Questa cultura del mangiare veloce si è però trasformata nella Penisola: parlerei più un “good” che di un “fast food”, con tutto che sono vegetariano». La differenza la fanno insomma la qualità del cibo: «in molti propongono la Fassona o altre carni italiane alternative all’Angus». Poi viene il servizio e il locale «che le diverse insegne fanno a gara a far vivere tutto il giorno», spiega Cattaneo. «L’hamburger è insomma un pretesto, poi ci sono il wi-fi, il caffè, i gadget, la colazione.
Di logica, chi serve il cappuccino non potrebbe essere chiamato hamburgeria, ma bar. Questo è marketing, e funziona. Ancora: trent’anni fa vidi un ristorante americano che vendeva cappelli e magliette, in quanti lo fanno in Italia? Solo le hamburgherie».
Chi ha applicato alla lettera la lezione è l’insegna milanese California Bakery, dietro due ex manager con esperienze in pubblicità e grandi aziende, Marco d’Arrigo e la moglie Caroline Denti. «Il fatturato 2013 è stimato in 13 milioni di euro e generato al 70% dal menù salato nonostante siamo specializzati in dolci americani», racconta la manager. Nelle insegne, 9 a marchio California Bakery (inclusa quella all’aeroporto di Linate e il Tweetbar nel quartier generale di Wpp Italia a Milano), oltre a tre negozi Bagel Factory «dove da tre giorni il menù comprende il bagle burger richiestissimo dai clienti», i prezzi sono quelli da alta trattoria: 15 euro inclusa l’acqua gratuita per un panino di carne irlandese. Poi ci sono i servizi, dal wi-fi, al meno scontato pic-nic (teli e cuscini in prestito per sedersi ai parchi nelle vicinanze dei negozi), fi no al California Bee, un’apecar itinerante con tutti i prodotti. Infine, magliette e gadget a marchio tutti rigorosamente in vendita.
C’è chi punta poi sulle tipicità regionali. Ad esempio la catena torinese di agri-hamburgherie M**Bun (tradotto dal dialetto «solo buono»), dove gli asterischi stanno per «ac», con carni certificate e bevande del posto, mentre il servizio al banco è con il cercapersone: si aspetta al tavolo il bip.
Anche da Eataly, la catena di Oscar Farinetti, l’Hamburgeria ha il presidio slow food e le birre sono rigorosamente aritigianali. E alle carni piemontesi e alla tecnologia si affi dano anche da Ham Holy burger, del gruppo Rossopomodoro: a Roma e Milano i locali richiamano le antiche trattorie, ma si ordina solo con un iPad dal tavolo.
Domani intanto verrà ufficialmente inaugurato a Milano (Via col di Lana) Sunny side up, hamburgeria con galleria d’arte annessa stile Happy days, aperta dalle 8 alle 3 del mattino il weekend (mezzanotte durante la settimana), con divanetti anni 50 (in vendita su ordinazione), panini serviti con vini californiani.
Un format «pensato per regalare un vero angolo d’America con tutti prodotti doc», che i tre soci Simone Salvadori, ex maitre del ristorante Luce, del museo Villa Panza di Varese, Maurizio Mantregani e Mario Missaglia vorrebbero moltiplicare.
«Oltre agli hamburger, fish and chips, specialità dolci, doggy bag assicurato e refill del caffè come nei diners Usa», spiegano. «I menù vari sono fondamentali per il successo di un locale», aggiunge Cattaneo.
«Da McDonald’s hanno ampliato la proposta, sia per un fattore culturale sia perchè nessuno mangerà mai sempre hamburger. Ho un solo consiglio per chi propone carne a chilometro zero: servitela in piatti di porcellana, questo fa davvero la differenza».
Di Francesca Sottilaro
per Italia Oggi, Il quotidiano dei professionisti di marketing, media e pubblicità
del 19 giugno 2013